Il ruolo dell’osservatore e la consapevolezza yoga.
Negli antichi testi yoga, la consapevolezza è il cuore di ogni trasformazione. La pratica insegna a osservare i pensieri senza esserne travolti, ad ascoltare il respiro e il corpo con attenzione. Ogni giorno, in ashram indiani e centri occidentali, migliaia di persone si siedono in silenzio per coltivare quella che gli yogi chiamano “coscienza testimone”. Patanjali, nei suoi Yoga Sutra databili tra il II secolo a.C. e il V secolo d.C., sintetizza con una frase divenuta celebre: “Yoga chitta vritti nirodhah”, cioè “lo yoga è la cessazione delle fluttuazioni mentali”.
Questa consapevolezza testimone, nella tradizione orientale, viene vissuta come distacco creativo. Il praticante impara a vedere la mente in azione come se fosse una scena teatrale. Questa nuova posizione permette di riconoscere che i pensieri vanno e vengono, ma non coincidono con la propria essenza. Paramahansa Yogananda, mistico e maestro del Novecento, raccontava come la meditazione di ore sulle colline dell’Himalaya gli concedesse la visione di una coscienza ampia, non identificata con le emozioni né con le agitazioni della vita.
Questa stessa attenzione al ruolo della coscienza attraversa, in modo sorprendente, la fisica quantistica. Nel Novecento, figure come Niels Bohr e Werner Heisenberg hanno svelato una realtà fatta di possibilità e probabilità, non di oggetti solidi e definiti. Il famoso “paradosso del gatto di Schrödinger”, proposto nel 1935 dal fisico austriaco Erwin Schrödinger, rappresenta una delle immagini più celebri della scienza moderna. Schrödinger immaginò un gatto chiuso in una scatola che, secondo le leggi della meccanica quantistica, risulta sia vivo che morto fino a che un osservatore non apre la scatola e ne verifica lo stato. Il semplice atto di osservare, di essere consapevoli della realtà, provoca il cosiddetto “collasso della funzione d’onda”: la realtà potenziale si trasforma in realtà concreta.
John Archibald Wheeler, altri fra i grandi della fisica, ha affermato negli anni Ottanta il principio dell’“universo partecipativo”. Secondo quest’idea, l’universo non si limita a esistere indipendentemente, ma prende forma proprio attraverso l’atto di osservazione. Wheeler scriveva:
“L’universo partecipa alla sua stessa creazione.”
Questo dialogo tra scienza e pratica interiore ha affascinato anche filosofi e divulgatori contemporanei. Fritjof Capra sottolinea come le intuizioni dei mistici orientali siano in sorprendente sintonia con i principi fondamentali della fisica quantistica. Qui, come nella meditazione yogica, nulla è separato e ogni cosa esiste in funzione della relazione con l’osservatore.
Oggi, neuroscienziati e fisici continuano a interrogarsi su quanto la coscienza influisca davvero sui fenomeni fisici. Lo yoga, invece, propone da secoli una via per sperimentare in prima persona questo mistero: la consapevolezza silenziosa, coltivata nella meditazione, non si limita a osservare la realtà, ma la trasforma.
In questo incrocio di saperi – da Benares a Copenaghen, dalle Upanishad ai laboratori del Max Planck Institute – emerge una domanda che rimane aperta: siamo solo spettatori o co-creatori del mondo che ci circonda? La risposta, forse, si trova nel silenzio di chi medita e nella curiosità di chi osserva.
Alcuni fisici ipotizzano che la coscienza sia coinvolta nei fenomeni quantistici.
Nell’universo della pratica yogica la consapevolezza non è solo un ideale, ma una disciplina quotidiana. Gli yogi, da secoli, coltivano la capacità di osservare la vita interiore con uno sguardo lucido e distaccato, una postura mentale che le antiche scritture chiamano Sākṣī Bhāva, la “coscienza testimone”. La pratica della meditazione porta chi la esercita ad acquisire una presenza nuova, capace di vedere pensieri ed emozioni senza identificarvisi, simile a un lago che riflette senza confondere le immagini che vi si specchiano.
La consapevolezza, in questo contesto, diventa trasformativa. L’esperienza di staccarsi dall’identificazione con le proprie emozioni e pensieri viene descritta dagli yogi come una liberazione. Di momenti simili parla Paramahansa Yogananda, ricordando le sue meditazioni nei pressi dei villaggi dell’Himalaya, quando la mente si acquieta e ciò che resta è solo “l’osservatore silenzioso”. Nei centri Vipassana di tutto il mondo, praticanti di ogni origine dedicano interi giorni all’arte di osservare con attenzione ogni sensazione corporea, ogni impulso, ogni respiro, così come si fa in un laboratorio d’indagine interiore.
Da un altro punto di vista, la fisica del XX secolo ha sollevato domande altrettanto profonde sul ruolo della consapevolezza. Eugene Wigner, Premio Nobel per la Fisica e figura chiave della “scuola di Princeton”, si interrogò sul mistero della coscienza in relazione ai fenomeni quantistici. Nella sua celebre ipotesi, formulata a partire dagli anni Sessanta, Wigner suggerì che la coscienza non sia un semplice prodotto della materia, ma un elemento fondamentale senza il quale la realtà stessa non si definisce pienamente. In uno dei suoi scritti più noti affermò:
“Non è possibile formulare le leggi della meccanica quantistica in modo completamente coerente senza riferirsi alla coscienza”.
L’interesse di fisici come Wigner non nasce dal nulla. Le teorie quantistiche della misura, a partire dall’esperimento della doppia fenditura e dal paradosso del gatto di Schrödinger, conducono gli scienziati a interrogarsi su chi o cosa “decide” lo stato di una particella. Secondo una delle interpretazioni più discusse, l’osservazione cosciente può giocare un ruolo nel “collasso della funzione d’onda” — il momento in cui una possibilità si manifesta come realtà concreta. John von Neumann, dopo attenti studi, condivideva intuizioni simili e trovava la questione irrisolta e affascinante.
Ancora oggi neuroscienziati, filosofi e fisici discutono sulle implicazioni di queste ipotesi, scoprendo come la centralità della consapevolezza nella spiritualità indiana risuoni, inaspettatamente, con le domande più radicali della scienza contemporanea. In entrambi i mondi si percepisce che la realtà non è solo ciò che appare agli occhi, ma anche il modo in cui, attraverso la coscienza, la si abita e la si trasforma.
Così, le antiche vie dello yoga e le moderne strade della fisica quantistica sembrano incontrarsi su una soglia affascinante: quella in cui l’osservatore – che sia lo yogi in meditazione o lo scienziato davanti a un esperimento – diventa parte attiva nel rivelare il mistero del reale.


