Entanglement e telepatia.

Entanglement e telepatia.

Entanglement e telepatia.

Tutte le sperimentazioni che abbiamo passato in rassegna (solo alcune tra le più note) sono state condotte da studiosi che non conoscevano ancora l’entanglement. Questa novità rende possibili tutte le supposizioni su una realtà non locale, cioè su un cosmo psichico nel quale idee e pensieri possono circolare liberamente anche in forma di trasmissioni telepatiche.

Possiamo immaginare un campo di forza, legato a ogni persona, che collega la sua realtà fisica, cioè la sua mente e la sua coscienza, al cosmo psichico dove può entrare in contatto con tutti i campi di forza dell’universo.

 

Entanglement e telepatia: le basi scientifiche, culturali e filosofiche di un legame misterioso.

 

La fisica quantistica, nata tra il 1900 e il 1930 nei laboratori europei, ha stravolto ogni certezza sulla natura della realtà. Il fenomeno dell’entanglement – il groviglio quantistico, secondo Schrödinger, che coniò il termine nel 1935 – mette in crisi l’idea di un universo fatto solo di oggetti separati tra loro. Due particelle, una volta “entangled”, restano connesse nel profondo: modificare lo stato di una modifica anche lo stato dell’altra, all’istante, indipendentemente dalla distanza.

Questa proprietà sfida la visione classica, ereditata da Newton. La non-località quantistica suggerisce che le “forze” in gioco non si limitano allo spazio-tempo tradizionale. Nel 1935, Einstein, Podolsky e Rosen (EPR) sollevarono dubbi sulla completezza della meccanica quantistica. Einstein descrisse l’entanglement come una “spettrale azione a distanza”. Nessuno, però, trovò un errore formale nella teoria di Bohr.

Fu David Bohm, tra gli anni ’50 e ’80, a proporre una visione ancora più radicale. Bohm immaginava un “ordine implicito” dietro la realtà visibile: tutto sarebbe legato tramite una rete sottile di informazioni. Bohm suggerì che le menti potrebbero, in linea di principio, essere “entangled” tra loro, permettendo forme di connessione profonda, paragonabili ai fenomeni extrasensoriali.

Sul versante culturale, il fascino dell’entanglement ha trovato eco nelle grandi tradizioni spirituali. L’India parla di “Akasha”, l’antico etere: uno spazio dove ogni pensiero ed evento è immediatamente accessibile. Anche la filosofia platonica suggeriva che le anime sono unite in un tutto superiore, da cui derivano intuizioni e ispirazioni.

Nel Novecento, lo psichiatra svizzero Carl Gustav Jung propone il concetto di sincronicità: coincidenze significative che sembrano suggerire un ordine nascosto. Jung sviluppa la sua teoria negli anni Trenta, collaborando con il fisico Wolfgang Pauli. Entrambi vedono nella sincronicità la traccia di un principio di connessione non-causale, affine all’entanglement. Jung pensa che l’inconscio collettivo sia “il luogo” dove avvengono questi collegamenti imprevedibili, spesso esperiti come telepatia.

La storia scientifica della telepatia attraversa la fondazione della “Society for Psychical Research” (Londra, 1882), dove studiosi come Henry Sidgwick e Frederic Myers cercano prove di trasmissione mentale tra individui. Gli esperimenti – con carte, disegni, numeri – mostrano risultati più alti della probabilità, ma insufficienti a convincere tutta la comunità scientifica. Negli anni Trenta, Joseph Banks Rhine replica questi test alla Duke University con le carte Zener. Rhine osserva piccole aberrazioni statistiche, ipotizzando l’esistenza di “canali sconosciuti” tra le menti.

La fisica all’epoca non poteva aiutare: il paradigma dominante escludeva ogni forma di interazione mentale non materiale. Oggi, le scoperte sull’entanglement e la non-località suggeriscono invece nuovi orizzonti. La domanda si fa più urgente: se le particelle possono restare in connessione senza scambio diretto di energia, perché escludere un analogo legame tra cervelli umani, complessi sistemi quantistici in sé?

Rupert Sheldrake, biologo contemporaneo, propone la teoria dei “campi morfici”. Sheldrake ipotizza che esistano campi informativi che collegano membri di una specie, consentendo il trasferimento di informazioni e modelli comportamentali senza contatto fisico. I critici contestano la mancanza di evidenze solide, ma il dibattito resta aperto.

L’antropologia offre spunti evocativi. Molte culture indigene raccontano di “sogni condivisi” e visioni a distanza, considerate normali nella vita spirituale della comunità. Gli sciamani amazzonici apprendono gli uni dagli altri senza parlare. Gli aborigeni australiani descrivono il “Dreaming” come una dimensione di interconnessione mentale.

Sul piano filosofico, Umberto Eco riflette in “La struttura assente” (1968) sulla tendenza degli esseri umani a cercare connessioni invisibili. Eco osserva che la percezione di significati condivisi è alla base di ogni cultura, teatro dove si gioca anche l’ipotesi telepatica.

In chiave contemporanea, il premio Nobel per la fisica Brian Josephson ha suggerito, più volte, un’analisi meno dogmatica delle esperienze telepatiche, sostenendo che la scienza non dovrebbe ignorare ciò che risulta inspiegabile sul piano teorico attuale. Anche il neurofisiologo Karl Pribram, con la teoria olografica della mente, ha aperto spazi di riflessione su una “memoria diffusa” non solo individualmente, ma anche collettivamente.

La telepatia, allora, non è solo tema di fantascienza o di superstizione. Rappresenta, invece, una delle grandi domande di confine, dove la fisica quantistica si avvicina alle scienze umane e alle tradizioni spirituali. Il collegamento tra entanglement e telepatia è ancora ipotetico; manca una base sperimentale definitiva. Tuttavia, la convergenza di indizi spinge scienziati e filosofi a non escludere un futuro in cui la mente e la materia potranno dialogare secondo modalità ancora tutte da comprendere. Come scriveva William James:

 “Non dobbiamo temere di esplorare l’ignoto, perché è dalla frontiera che nasce nuova conoscenza”.

Se la fisica quantistica ci insegna qualcosa, è che la realtà è sempre più sorprendente del previsto, e che forse anche le nostre menti sono nodi di una rete invisibile che attende soltanto di essere scoperta.